Quattro storie da Bergamo, Firenze, Roma e Caserta. Quattro farmacisti del Network Apoteca Natura ci raccontano come hanno vissuto i mesi più difficili dell’epidemia, anche dal punto di vista umano.
Quella croce verde che ha illuminato i marciapiedi deserti di marzo e aprile è stata per molti cittadini impauriti un’autentica stella polare. Dietro i banconi delle farmacie, sempre aperte durante la fase più acuta dell’epidemia da Covid-19, domeniche incluse, donne e uomini hanno sfidato il pericolo fra mille difficoltà e altrettante incertezze, muniti di camici e mascherine, armati di un profondo senso del dovere.
Esposti in prima linea, nella trincea del pronto soccorso e del primo aiuto, ci hanno offerto gli strumenti per proteggerci dal virus e i medicinali di cui avevamo bisogno. Ci hanno rassicurato, assistito, educato ai corretti comportamenti da seguire. Ci hanno dispensato sorrisi e regalato qualche parola di conforto.
Hanno rischiato la vita, così come i medici e gli infermieri in corsia; in sedici l’hanno persa. Eppure, di loro, si è parlato soprattutto per la polemica riguardo i costi dei dispositivi di protezione individuale, con l’ingiusta accusa di essere una delle categorie che nell’emergenza sanitaria ha voluto arricchirsi.
Noi di Apoteca Natura, consapevoli del ruolo fondamentale che i farmacisti hanno svolto in questi ultimi tre mesi in Italia, abbiamo voluto rendergli omaggio ospitando sul nostro blog, all’indomani del lockdown, i racconti provenienti da alcune delle farmacie del nostro Network. Quattro storie da Bergamo, Firenze, Roma e Caserta: quattro testimonianze dirette di ciò che ha significato davvero “essere farmacista ai tempi del Coronavirus”.
Paolo Pedenovi: «Abbiamo imparato il Covid sul campo»
Farmacia Pedenovi, Clusone (BG), Viale Giorgio Gusmini 16.
«Nessuno ci ha spiegato nulla, nessuno ci ha raccontato cosa avremmo dovuto fare. Dall’oggi al domani ci siamo ritrovati soli, in “assetto da guerra”, a imparare il Covid sul campo». Lo scudo e l’elmetto, ovvero guanti e mascherina, il Dottor Paolo Pedenovi ha dovuto indossarli molto prima di altri suoi colleghi in Italia, «era febbraio – racconta – ed ero appena tornato da una giornata di ferie». La sua farmacia è in viale Gusmini a Clusone, paese di 8mila abitanti della Val Seriana, una mezz’ora in auto da Bergamo: una delle zone più colpite dal Coronavirus. Per due mesi e più ha operato a battenti chiusi. «Non nascondo che anch’io all’inizio ero uno di quelli convinti che si trattasse solo di una brutta influenza, che si fidava di quanto veniva detto in tv o da tanti virologi intervistati. A farmi tornare sui miei passi sono state le mie collaboratrici: erano spaventate, e non credevano affatto che la situazione fosse sotto controllo. Fra noi ci furono anche degli attriti per questo. Poi però ho “mangiato la foglia”, e nel giro di tre giorni abbiamo introdotto tutte le misure e le pratiche di condotta che solo più tardi, con l’annuncio del lockdown, sono divenute obbligatorie».
È stata una corsa contro il tempo. «Iniziavamo a vedere gente che ci cadeva davanti. Ma le notizie che arrivavano dalle fonti ufficiali, o dalle istituzioni, erano sempre tardive rispetto a ciò che avevamo quotidianamente sotto gli occhi. Il famoso “non sento i sapori e gli odori”, tanto per fare un esempio, noi lo abbiamo riscontrato sin da subito nei pazienti, e almeno una decina di volte al giorno. Poi magari, un paio di settimane dopo, uscivano le prime informazioni diffuse dai media. E così con tutto, ecco perché dico che abbiamo imparato il Covid sul campo».
Anche con le mascherine, Paolo Pedenovi si è trovato a dover fare i conti all’improvviso. «Fino ad allora ne avrò vendute due pacchi da dieci ogni due mesi, o forse ogni sei. Non sapevo niente di mascherine, niente. Cercavamo di capire quali fossero le più efficaci, di studiare le varie differenze tra FFP2 o FFP3. Ora sappiamo tutto, certo. Ma provi a pensare agli inizi, a quei giorni così caotici, così tremendi, quando eravamo sommersi di richieste e non avevamo alcuna certezza sulle risposte. È stata dura, è stata dura, è stata veramente dura».
Per comprendere perché lo ripeta tre volte, basta un aneddoto: un singolo episodio drammatico, fra i tantissimi vissuti in prima persona in quella che definisce «una primavera di lacrime e dolore». «Abbiamo visto tanta sofferenza. Ricordo in particolare la chiamata di una mia carissima amica, mi implorava di portarle una bombola d’ossigeno. Non me la stava chiedendo per salvare qualcuno, mi disse che solo in quel modo sua madre avrebbe potuto morire in casa senza essere portata via in ospedale. Mi spiegò che l’accordo col 112 era “non te la portiamo via solo se trovi una bombola d’ossigeno”. Chi non ha vissuto la nostra situazione non potrà mai capire fino in fondo».
Le consegne a domicilio, in zona rossa, erano delle vere e proprie chiamate d’urgenza. «C’erano mille telefonate al giorno: bombola d’ossigeno-saturimetro-antibiotico-antibiotico-saturimetro-bombola d’ossigeno», recita come un mantra. «Era un flusso continuo, e senza che trovassimo niente, perché spesso niente si trovava. Abbiamo fatto tutti turni e orari pazzeschi, e ricerche spasmodiche di materiali anche quando sapevamo essere vane. Ci siamo sempre spinti oltre: non c’è mai stata un’occasione in cui abbiamo detto “beh noi arriviamo fin qui, perché fino a qui possiamo arrivare”. Abbiamo cercato di fare qualcosa in più – fa una pausa – ogni volta».
E questo è «il bello» che Paolo Pedenovi vuole portare con sé all’indomani della fase più acuta dell’epidemia. «Bergamo ha dimostrato di essere una straordinaria terra di volontari e di volontariato. Basti pensare a tutti quei bergamaschi che hanno sfidato il pericolo e si sono rimboccati le maniche per costruire un ospedale in strada e in tempi record. Anche io, nel piccolo della mia farmacia, ho dovuto assumere due nuove persone per sopperire alle defezioni di ben tre dipendenti su sette che erano rimasti a casa in malattia. Erano risorse fuori dall’ambiente farmaceutico: giovani che abbiamo formato nel più breve tempo possibile. Hanno dimostrato una disponibilità incredibile, nonostante tutti i rischi che stavano correndo, e con loro il resto dei miei dipendenti. È merito di questo gruppo encomiabile se abbiamo potuto continuare ad assistere e a supportare in qualsiasi modo i pazienti».
Ancora oggi c’è chi li ringrazia. «Per esserci stati sempre e comunque, ci dicono. È emozionante. Anche perché sono anni che lavoro per costruire un rapporto di fiducia e di verità con i clienti. Non ho mai voluto vendere prodotti ma servizi, e penso che il Covid abbia accelerato questo trend. E se prima pensavamo di cambiare pelle definitivamente, ora dobbiamo farlo con ancora più velocità. Sono certo che la strada per le farmacie sia questa, anche se la preoccupazione è grande. Perché a Bergamo la paura è ancora tanta, e la gente non esce di casa nemmeno per comprare un’aspirina. Fortunatamente le “nuove” dinamiche di rapporto tra paziente e farmacista, dalle consegne a casa alla digitalizzazione della relazione, con lo scambio di ricette via mail, WhatsApp, sito, noi le avevamo messe in atto già da un po’. Ora ovviamente si sono intensificate, e anche procedurizzate in qualche modo. Il problema, semmai, è che il prodotto-servizio non colma le perdite di fatturato. Che sono molte. La speranza, quindi, è quella di superare questa fase di transizione nel minor tempo possibile, e di riuscire a supportare anche economicamente questo cambiamento di pelle che, ripeto, sarà fondamentale nell’immediato futuro».
Maria Vannuzzi: «Con le mascherine il momento peggiore»
AFAM, Farmacie Comunali di Firenze
«Il lockdown ha avuto vari momenti e varie declinazioni in Toscana. Basti pensare che in tre mesi le ordinanze regionali sono state ben 67: questo dà un po’ la misura delle tante fasi che si sono succedute in questo pur breve periodo, così come delle difficoltà organizzative per affrontarle prontamente». La Dott.ssa Maria Vannuzzi è Direttore Retail di AFAM, la rete di farmacie comunali che a Firenze conta 21 punti vendita dislocati su tutto il territorio – «anche nelle aree meno “convenienti” dal punto di vista demografico, e quindi economico» – oltre a 15 studi medici gestiti in accordo con il Comune. Il suo è quindi un racconto che va al di là del singolo quartiere, e che ci offre una panoramica dettagliata di come gli abitanti fiorentini abbiano reagito all’avvento del Coronavirus e del ruolo «assolutamente centrale» che hanno avuto i farmacisti in tutta la città.
Un quadro in cui emergono tante sfumature. «A cominciare, come dicevo, da quelle temporali. I nostri operatori hanno sostenuto un carico di lavoro altamente impegnativo, e non solo per i rischi e per i pericoli che hanno corso, che sono molti ovviamente. Hanno dovuto tenere testa a variabili e incognite ogni volta diverse: la paura delle persone, la corsa all’accaparramento dei farmaci, quella per le mascherine… Tanto per rendere l’idea, abbiamo dovuto registrare un nastro in tutte le farmacie in cui si diceva che le mascherine non erano disponibili, perché i telefoni erano presi d’assalto ed era diventato impossibile prestare servizio al banco».
«I nostri farmacisti sono stati bravissimi. E devo dire che a casa sono rimasti davvero in pochi. Nessuno o quasi ha voluto usufruire di questa opportunità, che pure era a loro disposizione, per tutelare la famiglia, i figli piccoli, i genitori anziani. Sono stati sempre presenti, dimostrando un grandissimo senso civico e di responsabilità. In una prima fase hanno anche svolto una importante funzione educativa; ricordo, per esempio, lo sforzo per far comprendere le norme di distanziamento, o per far abituare a disinfettare le mani, quando ancora ai bar accanto accadeva l’esatto contrario, con la gente tutta “appiccicata” ai tavolini. Questa, d’altronde, è la funzione sociale e sanitaria che la farmacia è chiamata a svolgere: insegnare alle persone i corretti comportamenti legati alla prevenzione e, nel caso specifico, alla prevenzione dal virus».
Fra le molte fasi individuate da Maria Vannuzzi, ce n’è però una dai “risvolti oscuri”. «Parlo del periodo che va dalla metà di aprile alla fine di maggio, quando in tutte le farmacie venivano distribuite le mascherine gratuite erogate dalla Regione. Ecco, quello è stato il momento peggiore di tutta l’epidemia, credo che lì, purtroppo, si sia visto “il darkside dell’umanità”».
Cos’è successo dottoressa? «La Regione ci mandava queste mascherine, con un quantitativo contingentato naturalmente: ne arrivavano 200, e ne spettavano più o meno una decina a cliente. In quei frangenti della giornata, in cui si creavano file lunghissime e le mascherine finivano presto, i farmacisti si ritrovavano a essere offesi, insultati, minacciati addirittura. “Voi le volete tenere, perché voi le volete vendere, perché voi lucrate”. Cose di questo tipo, cose mai viste. Follia pura. Abbiamo riscontrato tanta aggressività, e in qualche occasione è divenuto necessario chiamare i carabinieri: c’era gente che litigava, che veniva alle mani; una volta sono volati persino dei bastoni. Per i farmacisti è stato davvero frustrante: sentivano di aver fatto tanto per mantenere un avamposto, per garantire un servizio, ma sembrava di colpo che non gli venisse più riconosciuto. Tutto questo per loro ha rappresentato anche un timore aggiunto, perché ogni volta non sapevano a cosa sarebbero andati incontro. In quella fase, devo ammetterlo, ho sentito screditato il loro ruolo, che invece è stato fondamentale, oltre che eccezionale».
Fortunatamente di ricordi ce ne sono tanti altri. «Abbiamo racconti di persone che si proponevano di andare a fare la spesa per i farmacisti, che gli portavano la verdura, o i cioccolatini, in segno di gratitudine per il loro impegno. E questo è accaduto soprattutto nelle farmacie di prossimità, che in un certo senso sono state riscoperte dalle comunità». Ed è una grandissima soddisfazione. «Anche perché abbiamo fatto di tutto per permettere ai punti vendita di rimanere a battenti aperti, per salvaguardare un servizio alla popolazione che, nonostante le misure, garantisse la continuità della relazione. Questa è una cosa di cui vado molto orgogliosa, perché non appena abbiamo capito le difficoltà nel reperire i dispositivi di protezione abbiamo fatto una corsa per dotarcene. E già prima dell’annuncio ufficiale del lockdown avevamo messo in sicurezza i farmacisti e il personale che opera negli studi medici con pannelli in plexiglass, guanti, mascherine e soluzioni disinfettanti. Era un dovere, certo, ma non era così scontato riuscire a mantenerlo».
Nel futuro della farmacia una delle parole chiave sarà “semplicità”. «Perché con il Covid è come se i bisogni di molte persone si siano asciugati, resi molto più essenziali, sia per lo stile di vita, sia per un tema di difficoltà economica. Ma anche perché oggi bisogna fare la fila ovunque, e quindi è necessario rendere l’esperienza dell’utente, oltre che sicura, quanto più facile e agevole possibile. In questo senso sarà davvero strategico avere una buona integrazione tra fisico e digitale. E proporre i servizi in forme nuove. Noi di AFAM ci stiamo già strutturando. Nel pieno dell’epidemia abbiamo introdotto la consegna a domicilio, attraverso la rete di volontari messi a disposizione dal Comune. Da giugno abbiamo attivato l’iniziativa “Risponde il farmacista”, per fare ordini telefonici di parafarmaci e attivare la consegna o il ritiro presso uno dei punti vendita a scelta del cliente. Con Apoteca, poi, abbiamo l’app che permette di prenotare e poi ritirare in farmacia, e anche in questo caso, dalla fine di luglio, ci attiveremo con la consegna a domicilio».
E se dovesse ripetersi un altro lockdown? «Beh credo che ormai siamo ben collaudati. E credo anche che arriveremmo pronti per fare un pezzettino in più, che tradotto, per noi, significa allestire la consegna a domicilio in modo autonomo». Sempre sperando che non sia necessario. «O che, come dicono alcuni scienziati, il virus si sia indebolito, e che sia diventato più contagioso ma meno pericoloso. Già questo potrebbe essere accettabile».
Guido Torelli: «Un viaggio simile a quello dell’Apollo 13»
Farmacia Torelli, Roma, Via del Trullo 296.
Cita il film con Tom Hanks il Dottor Guido Torelli, titolare della Farmacia Torelli in via del Trullo a Roma, «un contesto di borgata dalla forte identità di quartiere». Lo fa non a caso, visto che Apollo 13, la terza missione spaziale americana a dover sbarcare sulla Luna, divenne poi famosa per il guasto che le impedì l’allunaggio, e che rese un’impresa il suo rientro sulla Terra. Un’impresa, appunto. «In questi ultimi due mesi mi è sembrato di vivere una situazione del genere, quando all’improvviso, per una circostanza drammatica imprevedibile e tragica, ti ritrovi in balìa degli eventi a dover riprogrammare il viaggio e a riprogrammare la macchina». Non certo la cosa più semplice del mondo, perché «pur nel pieno del caos bisogna avere visione strategica, ma anche sapersi guardare i piedi per non inciampare nei tanti sassolini».
Le otto settimane di lockdown hanno rivoluzionato molte cose. «In farmacia avevamo un modello da seguire, quello della prossimità, della relazione empatica, della vicinanza anche fisica con le persone, come quando si fa una glicemia o una misurazione della pressione. L’epidemia di colpo ha fatto saltare tutto. La difficoltà più grande è stata proprio cercare di far capire, nei primi momenti, quali fossero le nuove norme di comportamento da seguire; far abituare i pazienti alla distanza da tenere, ad aspettare fuori, a essere chiamati per entrare. Ciò che mi ha colpito, però, è stata la loro reazione, il rispetto e la comprensione dimostrata; l’autodisciplina soprattutto. Non era affatto banale, anzi per certi versi era inattendibile, specie qui a Roma, che è una città dispersiva, caotica, logisticamente molto complicata. Una prova di solidità civica e di cultura della comunità non da poco conto».
Quelle settimane sono state per Guido Torelli «una serie incredibile di giorni della marmotta; era difficile capire se fosse lunedì o venerdì». Con i suoi sette dipendenti è giunto a fare turni di dodici ore. «Ci siamo messi a completa disposizione, nonostante il pericolo che correvamo in prima persona. La gente era spaventata, e lo eravamo anche noi. Ricordo che si è instaurato un atteggiamento di grandissima solidarietà, spesso di conforto: ti ritrovavi a rispondere a tutte le domande di rito sul virus, ma anche a rassicurare i pazienti su una serie di aspetti e questioni personali legate alla preoccupazione per amici e parenti più anziani: “Non posso vedere mamma, è cardiopatica, ha 85 anni, la sento solo per telefono e le devo lasciare la spesa sulla porta …”. A posteriori, è stato un percorso anche molto affascinante, segnato da un profondo spirito della condivisione e da un alto grado di buon senso. Quel tipo di problemi, d’altronde, li stavamo affrontando tutti in quel momento».
Due mesi senza soste, e senza la possibilità di razionalizzare davvero cosa stesse accadendo. «Poi piano piano, quando i dati della pandemia andavano migliorando, ho cominciato a fare una serie di riflessioni anche su cosa sarebbe potuto cambiare ancora, a seguito di tutto. E se in un primo momento ero convinto che il modello relazionale e di vicinanza alle persone che avevamo adottato in farmacia fosse di colpo superato o divenuto inapplicabile, ho poi capito che in realtà c’è una sorta di incomprimibilità dei rapporti che non prevede derive. Il concetto secondo cui “visto che non ci possiamo vedere, tanto vale che tu mi scriva tutto quello che ti serve su una qualche piattaforma e io ti recapito a casa la scatoletta” non potrà mai esistere. Non siamo fatti per ordinare pacchi la mattina e riceverli al pomeriggio come succede con Amazon; noi siamo persone, e in quanto tali viviamo per relazionarci le une con le altre; siamo un tessuto sociale che è, appunto, incomprimibile».
Piuttosto, per il Dott. Torelli, la questione è «cercare di vivere in sicurezza, e limitare al minimo le conseguenze di questa “bestiaccia” di virus, con cui bisognerà fare i conti ancora a lungo. Questo plasmerà ciò che saremo da qui un bel po’ di tempo. Dobbiamo modellare la nostra esistenza in relazione al fatto di stare tutti un po’ più lontani. Ma ormai sappiamo come reagire, abbiamo fatto degli anticorpi. Anche in farmacia, dove grazie a una serie di percorsi alternativi siamo riusciti a garantire prestazioni e servizi».
«Vivremo di appuntamenti digitali, via mail, Whatsapp, sito; vivremo di puntualità. Avremo delle finestre in cui le nostre esigenze verranno risolte entro una certa fascia oraria, fra le 16:00 e le 16:10, non un minuto di più e non uno di meno. A questo dovremo abituarci, così come ci siamo abituati rapidamente alla consegna a domicilio, che pure dovrà essere implementata, strutturata: sarà fondamentale. Certo la farmacia continuerà a fungere da piccolo pronto soccorso; d’altronde un mal di testa è impossibile da prevedere, e se in casa non c’è nulla per curarlo si renderà necessario andare a comprare qualcosa. Questa richiesta verrà comunque soddisfatta, ma anche in questo caso dovremo avere pazienza e abituarci a fare qualche momento di fila in più. Sempre fuori, e sempre a distanza».
Margherita Tafuri: «È stata una fase di grande innovazione»
Farmacia del Leone del Dott. Roberto Tafuri, Santa Maria Capua Vetere (CE), via Giuseppe Avezzana 1.
È votata per professione a guardare il lato positivo delle cose la Dott.ssa Margherita Tafuri, Direttore esecutivo e responsabile business development della Farmacia del Leone a Santa Maria Capua Vetere, fondata nel lontano 1711 e legata alla sua famiglia «da oltre cento anni». Lo fa anche quando ripercorre il lockdown. «Di fronte a questo enorme problema ci siamo resi conto di avere sempre sottovalutato la digitalizzazione delle persone, che in realtà vivono già da tempo in una dimensione di questo tipo e che, infatti, non hanno avuto difficoltà a seguirci in tutte le soluzioni che abbiamo messo a loro disposizione».
Di strumenti per aggirare la crisi, la Farmacia Tafuri ne ha adottati un bel po’. «È stata una fase di grande innovazione. E la risposta positiva dei nostri clienti ci ha sicuramente stimolato. Sin dai primi momenti abbiamo fatto molta comunicazione sui servizi che permettevano di rimanere a casa. La consegna a domicilio innanzitutto, che è partita molto bene. E poi il sistema di prenotazione: tramite Whatsapp, sito o sull’app dedicata ai prodotti di Apoteca Natura. Questo in particolare ci ha permesso di proseguire anche con le consulenze, che abbiamo cominciato a fare su appuntamento, in modo che i pazienti abbiano tutto il tempo e l’attenzione che ci chiedono, pur rimanendo in assoluta sicurezza».
In questi ultimi giorni è arrivato persino un locker in stile Amazon. «È un armadietto che consente, tramite pagamento anticipato, di ritirare in negozio quanto ordinato senza dover fare alcuna fila. E poi stiamo per installare un meccanismo a infrarossi che consentirà di contare le persone presenti all’interno della farmacia; così eviteremo di far entrare solo chi serviamo al banco, permetteremo anche ad altre persone, fino a un certo numero ovviamente, di girare nel nostro punto vendita, anche per stare un po’ più freschi visto il molto caldo».
La necessità di salvaguardare il rapporto con i clienti è proprio la leva che ha spinto la Dott.sa Tafuri e suo padre, titolare della farmacia, a non “sedersi” di fronte alle restrizioni e a ricercare senza soste accorgimenti e alternative. «È stato così sin dall’inizio, quando abbiamo fatto di tutto per rimanere aperti, anche a costo di “scontrarci” con i nostri collaboratori, che presi dalla paura ci avevano chiesto di operare a battenti chiusi, come altre farmacie di zona. Noi ci siamo dichiarati subito contrari: era proprio quello il momento in cui bisognava mantenere il servizio, ribadendo con ancora più forza il nostro ruolo di operatori sanitari e le nostre responsabilità nei confronti della comunità».
La farmacia Tafuri è stata sempre presente durante tutte le fasi del lockdown. «Ma ovviamente le misure di sicurezza che abbiamo dovuto prendere ci hanno allontanato dalle persone, e non solo fisicamente. Da un lato infatti non si poteva entrare, se non uno alla volta e per lo stretto tempo necessario; dall’altro c’erano tutta una serie di barriere, tra plexiglass davanti al banco, dispositivi di sicurezza personali, distanza da mantenere, che hanno finito col “ridurre all’osso” la relazione. Non a caso i clienti sono andati sempre più diminuendo, a parte un primo momento in cui molti di loro, preoccupati dall’emergenza, venivano per fare le cosiddette “scorte”».
È stato un periodo, soprattutto quello di marzo, «un po’ sospeso, e nel quale vivevamo tutti col fiato sospeso. Avevo l’impressione che ci si volesse vedere il minor tempo possibile. Specie in farmacia, che era un posto percepito anche come pericoloso dal punto di vista del contagio. Le persone venivano quando proprio dovevano, facendo la spesa per tutta la famiglia per rimandare quanto più in là un eventuale ritorno».
Poi però sono partite le consegne a domicilio. «Che facevo io personalmente, per non sottoporre a ulteriori tensioni i dipendenti, già molto stressati e intimoriti. È allora che ho cominciato a ritrovare un po’ di contatto umano. Riuscivo a parlare di più con i pazienti, gli chiedevo come stessero, loro lo chiedevano a me. Era bello, perché li vedevo contenti, quasi sollevati nel poterci incontrare in una sorta di “safety zone” che non li costringeva a uscire dalle proprie abitazioni. Mi hanno ringraziato spesso, ma devo dire che è stato di conforto anche per me: mi ha dato un grande stimolo per studiare nuove soluzioni ancora e per mettere in campo servizi, come le consulenze su prenotazione, che ormai facciamo anche in casa».
Oggi Margherita Tafuri è convinta che tutte le migliorie introdotte a causa del Covid saranno un’asse portante del futuro. «L’epidemia ci ha motivato ad accelerare su tanti processi che avevamo già in mente, ma che magari rimandavamo per via del poco tempo o per un’ordinaria amministrazione che spesso e volentieri diventa troppo “invadente” nei confronti della progettualità. Ora però dobbiamo continuare su questa strada, moltiplicando le occasioni di contatto anche al di fuori della farmacia e alimentando il circolo virtuoso tra fisico e digitale. Perché quello che credevamo un passaggio lungo e complicato, si è rivelato in realtà un cambiamento immediato, quasi naturale, che le persone erano pronte e forse anche invogliate a recepire già da un bel po’».
Autore
Francesco Gabriele, nato a Roma nel 1984, giornalista dal 2013 e content creator nel settore editoriale (quotidiani, magazine, new media). Ha scritto di persone, politica, cultura, luoghi, salute e diritti. Negli ultimi anni, all’attività puramente giornalistica, ha affiancato quella di comunicazione per aziende e professionisti. Dal 2017 è content strategist ed editor in chief per Arkage, prima agenzia di comunicazione a diventare in Italia Società Benefit e B Corp certificata.